A Città del Messico con Bolaño, di Alessandro Raveggi – recensione e intervista all’autore
Appena uscito con la collana Passaggi di Dogana, da sempre binomio di viaggi e letteratura, lo scrittore e studioso fiorentino Alessandro Roveggi approda in libreria con un nuovo libro dedicato al Messico come sua Città Impossibile. Presentato allo Strega 2021, prima di immergersi a 360° nella megalopoli e nei ricordi di Roberto Bolaño, era stato pubblicato da Bompiani con il Grande karma.
“Questo libro per me è un ritorno a casa”, sono queste le parole di Alessandro Raveggi a proposito del suo ultimo libro – A Città del Messico con Bolaño – uscito nella collana Passaggi di Dogana della Giulio Perrone Editore. Lo abbiamo raggiunto al telefono per fargli qualche domanda.
Hai già scritto diversi libri sul Messico e se non sbaglio ci hai vissuto anche qualche anno. Da dove ti nasce questo interesse?
Nasce da una casualità, cioè dall’aver conosciuto una persona che poi è diventata mia moglie che mi ha aperto uno scrigno. Come tutte le cose, anche le più semplici, da un’amicizia nasce un mondo e da un amore nasce un interesse viscerale per un mondo che poi all’inizio non capivo e che poi ho dovuto capire… anche un po’ tra l’archeologo e l’esploratore e poi è diventata casa, da casa è diventata un luogo di nostalgia, diciamo, un luogo in cui io dovevo andare via, perché comunque ti consuma, ed è anche un luogo che mi permette oggi di essere ‘nostalgico di’ senza doverci per forza vivere. È un luogo che ho abbandonato, quindi forse c’è la completezza del viaggio in questo senso, dell’andare e poi del tornare.
A cosa ti riferivi quando hai detto che, tra l’archeologo e l’esploratore, c’era qualcosa che non capivi e che poi hai dovuto capire?
Questo libro l’ho fatto perché vorrei che il lettore italiano o comunque l’italiano in generale o chi legge il libro da straniero, rispetto a Città del Messico, capisca la città. È una città fortemente compromessa da una propaganda negativa nei suoi confronti. Forse in alcune parti del mondo è più conosciuta, ma è difficile in qualche modo raccontarla perché è una città impossibile, come dico nel libro difficile da rappresentare, e questo provoca il fatto che alla fine se ne parli sempre male: la città più inquinata al mondo, la città più grande del mondo, tutte cose che ormai sono false e che non erano vere nemmeno negli anni ’80 e poi, era una città brutta fondamentalmente… in realtà è una città bellissima. Forse la megalopoli che io conosco nel mondo più bella che c’è. Molto più bella di Los Angeles, per tanti aspetti. Quindi volevo un po’ vendicare Città del Messico da questa fama e presentarne sia i pregi sia i difetti.
Ci puoi fare qualche esempio?
Il Messico è uno dei luoghi con il maggior numero di femminicidi al mondo, è una società che opprime e reprime i propri studenti, però allo stesso tempo è una città in cui si può mangiare ogni tipo di cibo a ogni ora, una città in cui ci sono forse i più bei musei dell’America Latina, una città che per gli scrittori è importante perché è anche un accesso al mondo letterario degli Stati Uniti perché di passaggio anche in quel senso. È un luogo ricco di cultura e di storia. Uno dei fondamenti di questo libro è che io vi racconto la Città del Messico dicendo che è differente dal Messico. Rappresenta in ‘piccolo’ tutto il Messico e rappresentandolo in qualche modo se vuoi lo protegge. È una città, come racconto, che ti opprime, labirintica, ma allo stesso tempo protegge come una fortezza, rispetto a quello che accade fuori nella società messicana. Per quello poi Bolaño, perché è stato quello che ha raccontato le meraviglie di Città del Messico e ha saputo raccontare quello che c’era fuori: un luogo di protezione, per quanto complesso, forse una vedetta dalla quale puoi guardare.
E quindi arriviamo a Bolaño.
Sì, è lui che mi ha fatto conoscere Città del Messico nel suo I detective selvaggi. L’ho letto nel 2002 quando ancora Bolaño non era morto e non era un mito. Mi piacque tantissimo e nello stesso tempo feci un sacco fatica a capire cos’era questo Distrito Federal, uno dei tanti nomi e delle tante facce di Città del Messico. Quindi mi sono messo sulle tracce di Bolaño perché lui mi aveva offerto una sorta di preview. La visione di Bolaño è quella di un uomo che è stato a Città del Messico da giovane negli anni ’70 e che volutamente ha creato una sorta di poetica, questo continuo deambulare nel pensiero di questi giovani pseudoscrittori, poeti, pseudointellettuali di vent’anni sempre in bolletta, che girano, vagano per le strade sconfinate del Messico.
Era uno scrittore straniero che si trovava a scrivere di una terra non sua, come te. In qualche modo è come se vi foste trovati?
Sì, lui veniva da un entroterra da dimenticare, forse, che è quello del Cile, e ovviamente io venivo da un’Italia che era altrettanto da dimenticare per altri motivi, di grande precariato, mancanza di lavoro, scoramento totale, erano anni terribili quelli. Non comparabili sicuramente con il Cile di Pinochet, però c’erano molti nostalgici al governo in quel momento… E poi la mia città, Firenze, che è una città ingombrante che costantemente ti interroga su cos’è vivere in una città.
Il libro si apre con una domanda che ti poni, da dove cominciare, e alla quale rispondi “da un’impossibile nostalgia”. Perché ricorre così spesso nelle pagine?
La nostalgia è forte quando è proprio impossibile, quando si ha nostalgia di un luogo centrifugo che non ti premette di avere nostalgia solo di una cosa. Ricordi che sfalsano il tempo e lo spazio e ti cambiano. Io all’inizio parlando di questa nostalgia presa negli anni della pandemia, appunto mi trovavo a scrollare sullo schermo del computer i miei luoghi direzione a Città del Messico. Paradossale perché ovviamente se uno pensava a un luogo dove scappare durante i mesi di lockdown sicuramente era un bosco e non una megalopoli. Non è possibile una nostalgia totalizzante che possa essere nostalgia di tutto quello che c’è. Città del Messico ha molti spiriti sebbene ne abbia solo uno forte, a mio avviso una sorta di città che si pone nei tuoi confronti in maniera molto precisa, ma appunto ci sono vari angoli della città e quindi non è possibile avere nostalgia solo di uno.
Anziché suddividere il testo in capitoli hai usato delle mappe. Come ti è venuta in mente questa idea?
Da Google Maps. Quando tu cerchi di andare da un posto all’altro, molto spesso visto che la città è fatta di vari strati, sopraelevate, raccordi che entrano in mezzo a piccoli paesi, c’è una rete così fitta che ci si perde e lo stesso vettore di Google Maps si perde e a un certo punto ti trovi a vagare nel vuoto, la tua macchina sembra che vada nel nulla anche se è un nulla tutto pieno di case e di gente. Ma, ecco, mi piaceva questa esperienza così difficile da raccontare: la Città del Messico in cui è difficile trovare una posizione. E da lì ho detto, beh, siccome tra l’altro mi ricordavo anche di quelle mappe storiche della vecchia Città del Messico che era una bellissima città sull’acqua, era una sorte di Venezia nel 1500. Attraverso questa suggestione mi sono detto che la cosa migliore era lasciare al lettore delle mappe come se fossero dei lenzuoli da stendere, dei tappeti forse anche per volare e immaginare certe cose.
In qualche modo è un tentativo come di abbracciare un luogo pur sapendone i limiti. E poi sono mappe colorate di tanti colori diversi: c’è la mappa del gusto, la mappa dell’acqua in cui io parlo di uno dei simboli fondamentali di una città che è considerata una megalopoli deserta, poi ad esempio la mappa degli studenti, la mappa delle femministe e dei femminicidi cioè appunto di come la violenza in Messico si rivolge in particolar modo alle donne e alla violenza di generi, poi ovviamente la mappa degli italiani di quelli che vanno a Città del Messico e come si comportano e com’è la loro vita là e che tipo di felicità trovano. Una serie di mappe che se vuoi possono essere viste in maniera orizzontale, come se potessi stenderle una sull’altra per poi farti un’idea, una sorta di disegno di Città del Messico.
Qual è la mappa che ti è più piaciuto scrivere?
Non so se è quella che mi è piaciuta più scrivere però è una mappa a cui tengo molto, la finale. Una mappa essenziale in cui mi trovo a Firenze, il presente del libro è il mio stare a Firenze e appunto parte dalla pandemia quindi da una situazione di impossibilità di viaggiare, e racconto di come ho scoperto il Codice Magliabechiano che è un codice che racconta la vita del 1500 degli Aztechi e viene conservato nella Biblioteca nazionale di Firenze. Mi sembrava molto bello, cioè sapere che nella mia città natale e nella città in cui vivo ci sia un luogo, una piccola porta, che mi permette di raccontare e di andare a vedere la Città del Messico. È un capitolo in cui condenso un po’ di esperienze e in cui dico che in Città del Messico si entra ma non si può uscire perché ti tiene con sé per sempre.
E per concludere, c’è qualcosa che ti preme che i lettori sappiano?
Una cosa che dico sempre è che questo libro nasce dopo aver scritto abbastanza a livello di prosa su Città del Messico, è un libro misto nel senso che ci sono parti di fiction di narrativa pura e altre di reportage. Ci tengo molto anche a questa formula ibrida perché mi piace proprio praticarla, perché credo che se uno vuole potare agli estremi i confini di quello che scrive deve anche esser capace di travalicare i generi. È un libro in cui dico appunto: Città del Messico è una mia città, attraverso di lei riscopro Firenze, città altrettanto difficile in un certo senso. Come dice la nota finale: non mi libererò mai di questo fantasma, come Moby Dick, una sorta di grande balena che ritorna all’orizzonte.
Alessandro Raveggi, A Città del Messico con Bolaño, Passaggi di Dogana, Giulio Perrone Editore 2022, pp. 156, Euro 15.
Il libro recensito è stato cortesemente fornito dalla Casa Editrice.