Songs of the Canaries e Songs of the Gypsies, la mostra di Jan Fabre
Per la prima volta in Italia i due più recenti capitoli della produzione del visionario artista belga
Dal 31 gennaio al 1° marzo 2025
Galleria Mucciaccia, Largo della Fontanella di Borghese, 89, 00186 Roma RM
ingresso libero
Opening 30 gennaio, ore 18.00
Clicca qui per il commento a cura di Alessandro Turillo (12 febbraio 2025)
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commento a cura di Alessandro Turillo (12 febbraio 2025)
Jan Fabre: i suoni dell’arte
Di quanto incanto abbiamo bisogno ogni giorno per camminare sul filo della vita senza perdere l’equilibrio, dando spazio alla luce dell’esistenza?
Per quanto l’arte contemporanea possa protendersi oltre il quotidiano, potrà trovare lo sguardo commosso dell’uomo, solo a patto che sappia gestire l’inesauribile tensione tra ricerca del senso della storia e la vita di tutti i giorni.
Partendo da tali presupposti, allora Jan Fabre con la sua mostra alla galleria Muciaccia di Roma, a Largo della Fontanella Borghese 89, a mio avviso è riuscito ancora una volta in questa impresa che, partendo dal cuore di Anversa in Belgio, raggiunge noi a Roma e tutti coloro che avranno l’interesse di incontrarlo fino al primo marzo.
La Galleria presenta – con due mostre a ingresso libero – due differenti tematiche, tenute insieme dalla passione di Jan Fabre per la musica e la natura. Al piano terra, in bella vista su piazzetta Borghese troveremo Songs of the Gypsies (A Tribute to Django Reinhardt and Django Gennaro Fabre) (Suono dei Gitani, un tributo a Django Reinhard e a Django Gennaro Fabre). Dipinti su carta fatti a quattro mani con il piccolo Django Gennaro, figlio dell’artista, e tre sculture che ritraggono Gennaro con una grandezza fuori misura, proporzionato all’attuale grandezza del padre Jan. Gennaro è scolpito in tre differenti pose, e sulla sua schiena vediamo riprodotti gli spartiti della più famose musiche del celebre chitarrista.
Siamo liberi nel nostro lasciarci rapire dalle evocazioni che vengono sollecitate, l’infanzia come libera creazione, il legame tra padre e figlio, la necessità di non perdere nel tempo lo slancio vitale che è la base di ogni scoperta e opera. Saremo noi come sempre ad avere l’ultima parola sul nostro sentire, sul bisogno che potrebbe nasce di approfondire le tematiche dell’artista.
Possiamo immaginare quanto la figura di Django Reinhard sia importante per lo scultore tanto da arrivare a dare al figlio il nome del grandissimo chitarrista jazz.
In questo gioco di esistenza e richiami, l’artista e suo figlio danno vita a lavori che possono portarci tanto verso una riflessione sull’arte contemporanea, quanto su un felice abbandono a forme e colori.
Sento già la possibile pioggia di critiche relative all’usare una tecnica infantile, che idealmente potremmo ritrovare a casa dei nostri nipotini dopo una giornata all’asilo, ma di fronte ad un atto poetico sono tante le strade che ognuno di noi sceglierà di imboccare.
In me prevale ad esempio l’esigenza di fluttuare nell’universo di Django Fabre, ma se incontrassi anche un critico appassionato, non mi ritrarrei da una riflessione condivisa e dialettica.
A me rimane un’intensa rievocazione dell’incontro tra tempo dell’infanzia e dell’età adulta, un deposito di colore su carta, e tratti essenziali di simbologie e storie perdute che Fabre ci restituisce, anche attraverso il gioco di certe impronte.
Sogni di Django volti ad una storia che di per se è slancio poetico verso la vita: un ragazzo ferito che attraverso il suo limite trova la strada dell’olimpo della musica jazz. Lo stile che nasce da un dolore iniziale.
Da più di quarant’anni Fabre si interroga attraverso il suo lavoro, passando nell’’84 alla Biennale di Venezia, continuando a produrre fantasie e domande per tutti noi. Alla galleria Muciaccia possiamo decidere se queste domande riguardino o meno anche noi.
Riparte da qui l’arte contemporanea? Siamo dentro ad un classicismo dell’arte degli ultimi sessant’anni? La mostra per me è anche uno stimolo a riflettere su quale sia la nostra posizione all’interno del dibattito sempre acceso di cosa sia arte e cosa no.
Ma sempre senza timore l’opera ci parlerà o creerà una repulsione, o addirittura una neutra indifferenza. Questi sono i percorsi che guidano le mie avventure nell’arte e nel mondo.
Alcune risposte certo sono sepolte come sempre nella storia che precede queste opere, ma questo mi pare un momento secondario al possibile incontro emotivo che faremo.
Mentre procedo in queste domande, scendo al piano sottostante per vedere la seconda parte della mostra e mi aspetta un viaggio che attraversa i secoli: come è possibile misurare?
Songs of the Canaries (A Tribute to Emiel Fabre and Robert Stroud) (Canti dei Canarini, un tributo a Emiel Fabre e Robert Stroud) senza mezze misure ci interroga sul nostro rapporto con il presente scientifico sempre più coinvolto nel tema della misurazione e nel suo confronto col desiderio poetico di comprensione dell’universo e dell’uomo.
Quello che troviamo sono sculture in marmo di carrara di cervelli umani con sopra posati dei canarini, mentre alle pareti vediamo una serie di disegni su Vantablack (il nero più nero in assoluto) sui quali sono disegnati neuroni e sinapsi con a volte delle frasi che dirigono l’attenzione dello spettatore su uno dei temi trattati da Jan Fabre in questa mostra, il rapporto d’amore per il fratello Emiel, scomparso a causa della malattia che in Belgio viene chiamata “dei canarini che cantano troppo forte nelle tue orecchie”.
Ma come ci indica il titolo, partecipa a questa rievocazione anche un’altra figura cara all’artista: Robert Stroud, ricordato come l’ornitologo di Alcatraz.
Rinchiuso nel carcere di massima sicurezza, Robert sviluppa una sua attività di studio dei canarini fino a individuarne patologie al tempo sconosciute e addirittura cure per i piccoli volatili.
Quando al suo rilascio dal carcare gli fu chiesto dai giornalisti cosa avrebbe fatto nel resto della sua vita, Stroud rispose “Misurerò le nuvole”.
La mostra nel piano sotterraneo della galleria è un percorso di immagini e sculture che porta nella seconda sala di fronte ad una statua, sempre in marmo di carrara: “The Man Who Measures His Own Planet” (“L’uomo che misura il suo pianeta”, 2024).
Della statua trovo sia interessante – tra le tante cose – il modo in cui è stata modellata: il corpo è quello dell’artista, il volto fa riferimento al fratello deceduto Emiel. Ma nel gesto di misurare l’impossibile siamo di fronte ad un tributo poetico per Robert.
Lascio ai visitatori la gioia della scoperta del resto della opere, ma che si possa passare o meno, credo che questa nuova occasione di incontro con Jan Fabre possa essere anche solo un richiamo, un canto che vada a sollecitare la curiosità per un artista contemporaneo che mentre parla spesso la nostra lingua, ci porta in mondi e a interrogativi che per un motivo o per l’altro troppo spesso lasciamo in disparte.
Dal 31 gennaio al 1 marzo 2025, Roma si prepara ad accogliere l’arte visionaria di Jan Fabre, uno dei più grandi innovatori della scena contemporanea, con una mostra che, per la prima volta in Italia, raccoglie i due più recenti capitoli della sua produzione artistica: Songs of the Canaries (A Tribute to Emiel Fabre and Robert Stroud) e Songs of the Gypsies (A Tribute to Django Reinhardt and Django Gennaro Fabre).
- Jan Fabre, The Man who measures his own planet, 2024, marmo di Carrara. Crediti per la foto: Pierluigi Di Pietro
- Jan Fabre, Manoir de mes rêves, 2024, pittura per bambini e matite da disegno. Crediti per la foto: Pierluigi Di Pietro
- Jan Fabre, Measuring the neurons, 2024, marmo di Carrara. Crediti per la foto: Pierluigi Di Pietro
- Jan Fabre, The Freefaller (of Art), 2024, marmo di Carrara. Crediti per la foto: Pierluigi Di Pietro
Artista visivo, creatore teatrale e autore, capace di fondere tradizione artistica, filosofia, scienza e spiritualità in un unico personale universo creativo, Fabre porta alla Galleria Mucciaccia di Roma un corpus di opere che attraversano l’essenza del pensiero umano, la fragilità della vita e il potere trasformativo dell’arte, “giocando” con la performatività dei materiali, per esplorare temi esistenziali, spirituali e scientifici attraverso un dialogo costante tra corpo, mente e materia.
Occasione per immergersi in un viaggio tra simbolismo, innovazione e intimità personale, in un percorso espositivo attraverso il quale Fabre continua a spingere i confini dell’arte reinventando antiche metafore per affrontare questioni contemporanee, la mostra è un’esplorazione del rapporto tra materia e spirito, forte di un uso innovativo di materiali come il marmo di Carrara, il Vantablack (la più nera versione esistente del nero) e i colori a matita e tempera.
Il primo capitolo Songs of the Canaries (A Tribute to Emiel Fabre and Robert Stroud) è un tributo poetico alla fragilità della vita, all’inseguimento dei sogni e alla continua ricerca dell’umanità di comprendere il cielo. Fabre esplora queste tematiche attraverso un’installazione composta da opere meticolosamente scolpite in marmo di Carrara e intimi, sorprendenti disegni a matite colorate su Vantablack. Una serie di sculture raffigura canarini appollaiati in cima a cervelli umani, apparentemente in contemplazione dei meccanismi interni della mente. Dettagli come le piume di un canarino – metafora della libertà e della fragilità – o le vene di un cervello si trasformano in una poesia scultorea che armonizza i suoni del cielo con l’eco dei pensieri umani, attraverso titoli evocativi come Thinking Outside the Cage (2024), Sharing Secrets About the Neurons (2024) e Measuring the Neurons (2024).
È al centro di questa prima sezione espositiva che si trova la scultura monumentale The Man Who Measures His Own Planet (2024): una figura si erge su una scala, con le braccia tese come a voler misurare l’immensità del cielo. Il cranio aperto rivela una “terra incognita”, quel territorio in gran parte inesplorato che è il cervello, simbolo dell’incessante ricerca dell’artista e dell’uomo per capire l’incomprensibile; il corpo è modellato su quello di Fabre stesso, mentre il volto rimanda al fratello scomparso prematuramente, Emiel, a cui è dedicata la mostra.
Questo primo capitolo Songs of the Canaries è anche un omaggio a Robert Stroud, detto “Birdman of Alcatraz”, un prigioniero che divenne un rinomato ornitologo, specializzato in canarini. Per poterli studiare, Stroud riuscì a farsi portare in cella centinaia di questi uccelli, creature che anche in cattività trovavano la forza di cantare e ispirare la mente. Quando fu rilasciato, alla domanda dei giornalisti su cosa avesse intenzione di fare per il resto della sua vita, Stroud rispose: “Misurerò le nuvole”.
Il secondo capitolo, Songs of the Gypsies (A Tribute to Django Reinhardt and Django Gennaro Fabre), mescola il jazz e l’arte con la vita personale dell’artista, per esplorare la relazione tra fragilità e creazione in opere sorprendenti che uniscono tradizione iconografica e innovazione contemporanea. Il cuore dell’installazione è costituito da tre grandi sculture di marmo di Carrara in cui Fabre raffigura un neonato fuori scala, suo figlio all’età di 5 mesi e mezzo, ma alto come il padre.
Questa seconda sezione della mostra inizia infatti con una nota personale: Fabre ha chiamato il suo primogenito Django Gennaro, dove Django si riferisce a Django Reinhardt, virtuoso chitarrista gypsy jazz belga, acclamato da musicisti di tutti i generi come geniale e innovativo. Reinhardt era riuscito a eccellere e a inventare un genere musicale personale partendo da un grande svantaggio: una grave menomazione alla mano sinistra dovuta a un incidente da ragazzo.
Jan Fabre ha scelto di omaggiare queste due importanti figure nella sua vita, fonti di ispirazione per la sua arte.
Le delicate forme infantili scolpite incarnano il mistero della nascita e della creazione e sono anche messaggere di partiture musicali jazz, che appaiono sia incise nel marmo sia nei disegni dai colori vivaci, evocando una dimensione giocosa e improvvisata, ispirata alle pitture infantili del giovane Django e ai brani di Reinhardt. Come una partitura musicale multidimensionale che trasporta lo spettatore sulle note dei grandi successi del chitarrista gitano “Minor Swing”, “Nuages” o “Manoir de Mes Rêves”, le opere conducono in un mondo di sogni concreti, di vite fatte d’arte; un lento swing tra l’infinitamente piccolo e l’infinitamente grande, un invito artistico a contemplare la fragilità e lo splendore della condizione umana. La mostra tutta è un inno alla musica, filo conduttore che attraversa entrambe le serie: Fabre intreccia note e immagini, trasformando il gypsy jazz di Django Reinhardt in una colonna sonora visiva, mentre i canarini, simbolo di canto e libertà, diventano messaggeri tra il terreno e il celeste.
Nato ad Anversa nel 1958, Jan Fabre è un innovatore di spicco e una delle figure più influenti del panorama artistico contemporaneo internazionale. Contribuendo all’arte visiva, al teatro e alla letteratura, è stato il primo artista vivente a tenere grandi mostre personali in istituzioni prestigiose come il Museo del Louvre di Parigi nel 2008 e il Museo Hermitage di San Pietroburgo nel 2017. Inoltre, è l’unico artista ad aver ricevuto l’onore della Cour d’Honneur del Festival di Avignone per tre edizioni consecutive (2001, 2005 e 2006) e ad essere stato incaricato di creare un’opera per la Felsenreitschule al Festival di Salisburgo nel 2007.
La mostra, a cura di Dimitri Ozerkov, con contributi di Giacinto Di Pietrantonio, Melania Rossi e Floriana Conte, è accompagnata da un catalogo ricco di analisi critiche e immagini, curato da Melania Rossi e Giovanna Caterina de Feo; un approfondito omaggio alla complessità dell’arte del maestro belga, che intreccia temi personali, simbolici e universali.
Jan Fabre
Songs of the Canaries
(A tribute to Emiel Fabre and Robert Stroud)
e
Songs of the Gypsies
(A tribute to Django Reinhardt and Django Gennaro Fabre)
Inaugurazione: 30 gennaio 2025 | ore 18.00
Apertura al pubblico: 31 gennaio – 1 marzo 2025
Sede: Galleria Mucciaccia, largo della Fontanella di Borghese 89, Roma
Orari: dal lunedì al sabato 10.00 – 19.30; domenica chiuso.
Ingresso libero
Informazioni: tel. 06 69923801 – [email protected]
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