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La Fondazione Burri a Città di Castello

Dove e perché

Dal 1978 Città di Castello ospita una larghissima collezione di uno dei suoi cittadini più illustri, Alberto Burri, nella sede di Palazzo Albizzini. Dal 1980 la fondazione si è ampliata con una seconda estesa sede, gli ex seccatoi del Tabacco.

Fu Burri stesso a volere questa collezione e a donare a Città di Castello le prime trentadue opere che ne avrebbero fatto parte, poi arricchite nel tempo da altre opere tutte del maestro, fino alle centoventotto attuali.

Un filo rosso: il Come

Mi trovo in una assolata cittadina umbra, leggermente oltre l’itinerario turistico tradizionale, che coinvolge santi e borghi che ti fanno respirare il Medioevo nei colori opachi, nelle pietre bianche del monte Subasio che sono lì da ottocento anni e sembrano guardarti. Le pietre delle grandi basiliche, delle case che formano i centri storici, pietre grezze ed eleganti, espressive perché per andarci d’accordo devi essere in sintonia con i valori che esprimono.

Mentre visito le prime sale in cui sono esposte le installazioni coi sacchi mi tornano in mente i sai di San Francesco esposti alla Basilica maggiore o a Santa Chiara.

È inevitabile, penso: ognuno resta legato al proprio paese natale e cerca, da adulto, qualche elemento di quei luoghi particolarmente influente sulla propria infanzia e sulle proprie scelte future.

Alberto Burri non ci parla attraverso il cosa, ma attraverso il come. Il tuffo nel contemporaneo che compiamo visitando la fondazione svela uno stretto legame col resto dell’Umbria medievale: Burri è stato figlio della sua terra perché si è posto al mondo come l’artista della materia, talvolta grezza o ancora piegata alla volontà dell’interprete che la plasmava.

Il percorso che ci guida è un flusso di diversi materiali che hanno contrassegnato le epoche di un uomo che ha esposto atmosfere e tensioni della seconda metà del Novecento: sacchi, legni, tessuti, ferro, plastica, cellotex.

Chi

Guardo le opere, esposte in modo arioso. Guardo la disposizione armoniosa dei sacchi in opere che non credo vogliano comunicare armonia; guardo le combustioni sul legno, sulla plastica, le grandi lastre di ferro e mi torna in mente un dubbio che nutriva la mia mente di studente. Chi ha deciso la forma ultima di ogni opera, la materia o l’artista? Chi trasmette il messaggio al pubblico, chi è stato ad avere la meglio, il fuoco o la mano di Burri che lo conduceva?

Nelle combustioni questa domanda si fa più preponderante, al contrario nelle serie dei cellotex la forma composta di quel materiale così discreto emana l’idea di un controllo totale dell’interprete sulla sostanza. Eppure, nonostante questa differenza tangibile, i differenti cicli di opere mi sembrano appartenere tutti ad una stessa etnia, mi sembrano avere gli stessi occhi rivolti verso di me. E mi autorivolgo uno stimolo ad una comprensione più profonda: cosa vogliono dirmi queste “tele”?

Una forma di risposta: Cosa

La sala 8 di Palazzo Albizzini mi appare come la cella sacra del tempio greco. Sento che lì posso trovare una risposta.

È la sala dei dipinti più grandi. Sembrano dei totem, di grandi dimensioni, sembra che ci vogliano parlare ma contemporaneamente darci le spalle, rivolti altrove, non verso la nostra direzione. Altri sembrano volerci parlare ma con la bocca chiusa. Sembrano rivolgerci solo uno sguardo mediamente eloquente, ma ci richiedono un grande sforzo. Dobbiamo capire se vale la pena compierlo perché non conosciamo l’importanza del significato del messaggio.

È una sala classica. Perché, come nell’arte classica, si comprende la grandezza nella concezione che è sottesa dietro ogni opera, nonché l’importanza del messaggio, che ha una carica così intensa da poter parlare per molti anni a venire, svettando molto oltre il mero periodo della composizione.

La classicità e l’imponenza sono emanati anche dai materiali e dai colori, oltre che dalla grandezza. Ferro, legno, tessuto nero, tessuto rosso misto a bianco sono colori e materiali primari che ci conducono all’essenza della società e della comunità di uomini.

Penso di scorgere una minima illuminazione di quello che potrebbe essere il messaggio o perlomeno una parte del messaggio: l’immanenza. Il portare verso il pubblico qualcosa di solido, di conosciuto, qualcosa che si diffonde e permea nella collettività dai tempi del Paleolitico fino all’età presente; la pervasività della materia che segna le epoche della storia universale e personale, che vive un rapporto di continua tensione e sfida col suo stesso creatore.

In queste installazioni vediamo quelle materie isolate, totalizzate, assurte a enti, vicine alla loro forma primaria, ma appena curvate e piegate dall’artista, la cui principale missione è stata quella di averle rese massimamente comunicative.

Link al sito della Fondazione Burri: https://www.fondazioneburri.org/

Foto di Michele Mongelli.

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